Don Didimo Mantiero

Colui che voleva fare di sè un UNO

Biografia Opere Pensieri

 

La vita e il ricordo

Biografia liberamente desunta dalle note sulla vita dal libro Il volto più vero, redatte dall'Avv. Sergio Martinelli.


Don Didimo Mantiero nasce a Novoledo, frazione del comune di Villaverla, in provincia di Vicenza, il 21 giugno 1912. È il quinto di dieci fratelli, fra i quali si annoverano due sacerdoti e due suore missionarie. La famiglia contadina è molto religiosa. Un fratello del padre, monsignor Antonio Mantiero, ricoprirà la carica di Vescovo di Treviso dal 1936 al 1956. Da questo zio don Didimo attingerà molti preziosi consigli per la sua attività pastorale.
Entra nel seminario di Vicenza a quindici anni e viene ordinato prete dal grande Vescovo monsignor Ferdinando Rodolfi nel giugno 1937.
Dotato di un'acuta intelligenza, non può proseguire negli studi a causa di una grave malattia che lo colpisce nei primi anni del suo sacerdozio. Svolge il suo apostolato tra i giovani dopo il periodo di infermità, ma viene continuamente rimosso dalle parrocchie assegnate, cause gelosie e timori.
Nel 1941 fonda la Dieci, un'associazione che, partendo dall'episodio narrato nella Genesi, nel quale Dio promette di risparmiare Sodoma se vi si troveranno dieci giusti, si propone di riunire un gruppo di persone (non è necessario che siano proprio dieci...), per lo più in una parrocchia, che si impegnano ad offrire a Dio un giorno della propria settimana per la salvezza della città.
Tappa importante della sua attività pastorale è la nomina a cappellano di Valdagno nell'anno 1946. Nell'oratorio di tale cittadina resterà fino al 1953, quando viene nominato parroco di Santa croce di Bassano del Grappa, parrocchia prevalentemente agricola alla periferia della città. A Valdagno, città industrializzata, tra studenti e operai, don Didimo ebbe modo di progettare la Città dei Giovani, che non ebbe pratica realizzazione per l'opposizione di qualche potentato.
A Santa Croce di Bassano, tornato invece tra i giovani contadini (al suo arrivo a Bassano nella sua parrocchia i giovani universitari erano meno di cinque), ebbe modo di meditare sul suo progetto educativo che vide pratica realizzazione nel 1962 con il sorgere del Comune dei Giovani, tutt'oggi fiorente e attivo.
Dopo un periodo di preghiera e di studio, confortato dai consigli dell'illustre amico giurista Francesco Carnelutti di Venezia, don Didimo si decise a dar vita al Comune dei Giovani pur in mancanza di adeguate strutture.
La nascita del Comune dei Giovani, preceduta da un'intensa attività catechetica nella parrocchia, segna lo sviluppo del metodo pastorale di don Didimo, metodo che ha come obiettivo la responsabilizzazione dei giovani e che si fonda su due pilastri insostituibili: la Dieci e la catechesi.
Della Dieci, don Didimo fece sempre tesoro, sull'invito di don Giovanni Calabria a coltivare tale iniziativa «che farà tanto bene nel mondo e nella Chiesa». Fu un'iniziativa pastorale che viveva e vive in una grande discrezione e quasi nel nascondimento. A tale associazione, alquanto informale, don Didimo avvio le forze migliori della sua parrocchia, vecchi e ammalati, ai quali chiedeva di impetrare quotidianamente a Dio per i suoi giovani.
Dove don Didimo non si risparmiò fu nella costruzione della scuola di catechesi. Considerava i suoi catechisti la pupilla della parrocchia, a preparare i quali venivano chiamati docenti universitari, grandi nomi della cultura cattolica.
Al sorgere del Comune dei Giovani, nella parrocchia di Santa Croce, di cinquemila anime, ormai soggetta ad un'espansione edilizia impressionante, si contavano ottocento iscritti alla catechesi e più di cento insegnanti, due per classe, con classi mai superiori ai dodici-quindici alunni.
Il Comune dei Giovani, dopo una gestazione di due anni, nacque con il tentativo di creare unità organica tra le varie iniziative parrocchiali, con l'obiettivo finale di rendere i giovani responsabili e pronti a inserirsi nel tessuto sociale, dopo aver sperimentato la gestione in piccolo di un comune.
L'associazione fu fucina di molti amministratori e di ben due sindaci alla guida del comune di Bassano del Grappa. Alla costituzione del Comune dei Giovani però don Didimo premetteva sempre la presenza del gruppo orante della Dieci e di un'organizzata scuola di catechesi: «Solo la coscienza della Verità è fonte di unità anche con visioni politiche non omogenee».
La strada della Croce fisica arrivò per don Didimo all'età di 62 anni. Le morti traumatiche di alcuni suoi giovani accelerarono il progresso della malattia, il morbo di Parkinson. Nel 1976 la malattia aggredì don Didimo con virulenza, rendendogli difficile il parlare. Resistette alla guida della parrocchia, supportato dall'efficiente organizzazione creata, ma nel 1979 fu costretto a lasciare l'incarico a causa di una grave alterazione celebrale. Ritiratosi, non autosufficiente, in un piccolo appartamento reso disponibile nella scuola materna parrocchiale, fu amorosamente assistito di notte a turno per ben dieci anni dai suoi giovani.
nel 1981 nacque la Scuola di Cultura Cattolica, per opera degli adulti usciti dall'esperienza del Comune dei Giovani. L'istituzione, sempre desiderata da don Didimo fin da primi anni della sua esperienza a Bassano, ebbe un grande successo grazie alla sapiente direzione del sociologo professor Gianfranco Morra dell'università di Bologna. A tale cattedra si susseguirono i nomi più prestigiosi della cultura cattolica italiana e internazionale. Nel 1983 nacque il Premio Nazionale al
Merito della Cultura Cattolica, poi divenuto Internazionale. Le illustri personalità ecclesiastiche, politiche e accademiche che si susseguivano a Bassano passavano anche per la stanza di don Didimo, il quale non faceva altro che piangere, per la sua sofferenza.
Morì il 13 giugno 1991, festa di Sant'Antonio da Padova, di cui conservava gelosamente una reliquia ex ossibus.
È tuttora sepolto nel cimitero di Bassano del Grappa, accanto alla chiesa di Santa Croce.

 

Da parte di chi lo ha conosciuto

Il curato di Bassano

"Don Mantiero lavorò sempre nelle parrocchie delle campagne venete; Bassano del Grappa, dove trascorse il periodo più lungo della sua vita sacerdotale e dove morì, era la sua nona parrocchia. Si considerò sempre un semplice prete di campagna, ma bisogna subito sottolineare che era un sacerdote di straordinaria capacità pastorale e di grande ricchezza spirituale; era anche un uomo molto istruito, non solo in teologia ma pure in filosofia e letteratura; non era un intellettuale ma piuttosto un uomo di grande cultura. Desiderava diffondere la cultura nel più ampio senso del termine, quella cultura che aiuta ogni persona umana a crescere e che è accessibile tanto a un contadino quanto a un professore. Lo testimoniano i suoi incontri serali con i figli dei contadini e degli operai nei quali si parlava di catechismo e di san Tommaso ma anche di Dante e di Manzoni. Aiutava i suoi ragazzi più portati per lo studio in latino e in italiano, li consigliava di leggere i libri di Dostoevskij e Leopardi, li incoraggiava a prendere in mano anche i classici della filosofia come Platone e Aristotele. Lo scopo principale di un tale lavoro culturale era l'approfondimento della fede e la migliore conoscenza della suprema Verità. Nella biblioteca di Don Didimo, custodita adesso dai suoi allievi a Bassano del Grappa, troviamo molti commenti alle opere di san Tommaso d'Aquino, di sant'Agostino e di sant'Anselmo, così come Umanesimo integrale di J. Maritain (edizione del 1947), Compendio di teologia ascetica e mistica di Tanquerey (del 1927), Thesaurus animae di Lacordaire (edizione del 1926), e sottolineato fittamente, il libro di Rosmini, La perfezione cristiana (pubblicato a cura di M.F. Sciacca nel 1948); inoltre un difficile e quasi dimenticato classico della spiritualità cristiana: Elevazioni a Dio di J. Bossuet, un libricino consumato che il parroco bassanese continuò a leggere fino agli ultimi giorni della sua vita. Nelle lettere ai suoi giovani amici ogni tanto accenna alle sue letture e cita libri che non si sono trovati nella sua biblioteca, perché i suoi libri venivano spesso prestati e giravano fra i ragazzi; così, ad esempio, nella circolare del 17 aprile 1942 scrive che sta leggendo il libro di un medico sulla Sindone e la biografia di Teresa Neumann..."

 

L'eredita' spirituale di don Didimo: don Didimo e' nostro padre

Commemorazione di don Didimo Mantiero tenuta dall' Avv. Sergio Martinelli nel primo anniversario della morte.

(13 giugno 1992, Fonte - TV)

Padre è colui che dà la vita. Don Didimo ha dato a noi la vita. La vita è un fenomeno complesso, che è sciocco e banale semplificare. La vita è un mistero più misterioso di quanto possa sembrare. Anche ridotta al momento del concepimento, la vita umana ha sempre tre fattori: un padre, una madre e lo Spirito Santo. E ogni padre e ogni madre trasmettono a loro volta un patrimonio genetico che viene dalla profondità dei secoli. Noi siamo figli di tanti dolori, di tante speranze, di tanta fede; siamo i figli di gente che nei secoli ha lottato con tenacia e con amore, con fede e con speranza perchè noi fossimo; siamo figli di tanti padri e di tante madri. Ad essi vada talvolta il nostro pensiero, la nostra gratitudine, la nostra preghiera.

In questa complessità di vita è necessario nascere e rinascere, come Gesù invitava Nicodemo a fare - povero e caro Nicodemo, maestro in Israele, che non capisce e domanda: "come può un uomo nascere quando è vecchio?". Nicodemo è molto vicino a noi che, in questa complessità di vita, di nascite e di rinascite, sia detto senza l'ombra di cattivo umorismo, possiamo dirci figli di molti padri. E se ognuno di noi provasse a cercare chi lo ha portato ad essere la persona che è, dovrebbe ammettere di trovarsi in difficoltà! Ma alcune persone sarebbero da lui immediatamente individuate. I suoi genitori, prima di tutto. E noi qui presenti potremmo senz'altro aggiungere Don Didimo. Don Didimo è stato nostro vero padre, ed è giusto che i suoi figli si ritrovino nel tempo, in una data anniversaria che segna e segnerà per sempre il nostro tempo, a ricordare il loro padre e a cercare di capire dove sia stato nella nostra storia l'atto della sua paternità. Ebbene io elencherò alcune ragioni per cui Don Didimo è nostro padre. Ma altri potrebbero aggiungerne.

1) Don Didimo è diventato nostro padre quando ha deposto nel nostro animo il germe della "coscienza della verita". La verità è come l'ossigeno. La verità è come la luce. Non si può vivere senza ossigeno. Non si può vivere senza luce. Non si può vivere senza verità. Ma una cosa è vivere incoscientemente ed un'altra cosa è avere la coscienza della vita. Chi incoscientemente vive, incoscientemente muore. Chi invece ha la coscienza di dove sia la fonte della vita, in casi ben rari decide liberamente di rifiutarla e di morire. Don Didimo ha dato a noi la coscienza che noi siamo dove è il nostro progetto, dove è il pensiero che ci ha pensati, dove è la parola vera, dove è il Verbo senza il quale "niente è stato fatto di tutto ciò che esiste". Don Didimo ha messo in noi questa coscienza. Chi ha capito questo e lo ha accettato, non può più essere l'uomo di prima. È nato un uomo nuovo. Sono rimasti i tradimenti, ma ne sono seguite le lacrime, non il suicidio. E se è vero quanto dice il grande San Tommaso d'Aquino, che don Didimo ci ha fatto amare : "esse est tendere", è rimasta la tensione a una Verità che è "la luce vera, quella che illumina ogni uomo".

2) Don Didimo è nostro padre perchè ha rigenerato in noi Abramo, nostro padre nella Fede. I nostri genitori sono nostri genitori perchè ci hanno trasmesso la vita, che anche a loro fu trasmessa dai tempi dei tempi. I nostri antenati, della cui vita noi viviamo, erano anche contemporanei di Abramo. La coscienza di essere anche figli di Abramo, diretti discendenti suoi - chiamati a far rivivere a distanza di millenni, ma in una contemporaneità bruciante, un trattato sconvolgente - questa coscienza l'ha generata in noi don Didimo. Dove comincia la coscienza comincia la vita dello spirito. Chi accende la coscienza, accende la vita, cioè è padre. Don Didimo ha acceso in noi la coscienza di essere figli di Abramo e ci ha chiamati ad essere parte con lui del trattato di pace fra la terra e il Cielo, l'unico vero trattato di pace, fondato sulla giustizia di Gesù Cristo. Come si può non chiamare "padre" chi ci ha chiamato a questa vita? Come si può dubitare che sia vera paternità, la paternità spirituale? Chi ha ricevuto questa chiamata alla vita da Don Didimo, come può non riconoscerlo vero e carissimo padre? Non c'è ragazzo o ragazza che non senta la prepotente chiamata alla paternità e alla maternità. Ricordiamoci di Don Didimo. È stato vero padre. Ha avuto tanti figli, che gli hanno voluto tanto bene. C'è sempre bisogno di preti così, di preti veri, che non rinunciano ad essere padri, anzi lo sono di più di tanti padri naturali. Se qualcuno si sente chiamato da Dio a diventare sacerdote, sappia che non rinuncia alla paternità, in senso vero, reale, non metaforico. Lo Spirito è vita. "Quel che è nato dalla carne è carne e quello che è nato dallo Spirito è Spirito".

3) Don Didimo è stato nostro padre perchè è stato il creatore del nostro modo di essere Chiesa. Egli non è stato "soltanto" il nostro padre individuale, di ognuno di noi, in vario modo e misura. Egli ha fatto di noi una comunità ecclesiale. La Chiesa è una, santa, cattolica e apostolica. La Chiesa è una. Ma la Chiesa non è composta di tante anonime individualità, indipendenti una dall'altra. La Chiesa è fatta di persone e le persone sono esseri di relazione, cioè fanno parte di famiglie, di associazioni, di compagnie, di amicizie. L'uomo isolato non esiste. L'appartenenza alla Chiesa una, che valica tempo e spazio, avviene in un certo tempo, attraverso una certa lingua, mediata da una certa cultura, grazie alla testimonianza di determinate persone. La nostra appartenenza alla Chiesa è stata segnata in modo indelebile dalla parola, dalla cultura e dalla testimonianza di Don Didimo. E non si puo ridurre ciò a semplice fatto storico che appartiene al passato. È vero che si dice: morto un Papa se ne fa un altro. Questa è astrazione. C'è gente, ci sono giovani, ci sono illustri uomini di cultura che a ottocento anni di distanza si avvicinano alla Chiesa perchè affascinati dal modo di essere Chiesa di San Francesco d'Assisi. C'è gente che crede alla Chiesa per la testimonianza disarmante di Santa Bernardette, morta da cento anni. Possiamo noi dire che nessuno più di Don Didimo ci ha rivelato e ci ha testimoniato che la Chiesa è una famiglia? Come in un famiglia ci sono parentele più o meno strette e come in una famiglia il vincolo più stretto non è in funzione della esclusione ma della carità, così nella Chiesa che ci ha rivelato e testimoniato Don Didimo. La famiglia, determinata dai nostri stretti legami spirituali e culturali, al servizio dì tutti. Non è così che operano i francescani? Non e così che operano tutte le comunità religiose, di sacerdoti, di suore, di laici, di cui è ricca la Chiesa? I nostri difetti potranno oscurare il nostro ruolo, ma non cancellarlo, se a questo ruolo siamo stati chiamati da Dio e se lo esercitiamo "con buona volontà". La spiritualità e la carità di Don Didimo non sono un ruolo generico di essere Chiesa. Noi dobbiamo avere questa chiarezza interiore e questa piena consapevolezza.

Don Didimo non è stato, ripeto, un santo prete che ha fatto bene ad un paio di generazioni di parrochiani. Ridotto in questi termini, hanno ragione coloro che dicono che morto un Papa se ne fa un altro. Don Didimo non ci ha introdotti nella Chiesa uno alla volta. Don Didimo ci ha messi insieme e ci ha introdotti nella Chiesa tutti insieme. Non solo. Don Didimo ha inventato un metodo per introdurci nella Chiesa e ci ha messo a disposizione questo metodo perchè altri fossero introdotti nella Chiesa. E questo metodo funziona! Nel deserto della pastorale giovanile il Comune dei Giovani funziona. Ecco la ragione della validità attuale e futura, non passata, del nostro modo di essere Chiesa. Noi siamo Chiesa perchè lo siamo diventati attraverso il Comune dei Giovani, metodo educativo creato da Don Didimo, che lo ha affidato a noi perchè lo custodissimo a beneficio della Chiesa universale e delle generazioni future. Il Comune dei Giovani, con le radici nella preghiera della Dieci, affiancato dalla catechesi-scuola di cultura cattolica, è l'organizzazione attraverso cui si è creata la nostra omogeneità culturale, dove si sono rafforzati i nostri legami di famiglia, ed il Comune dei Giovani è contemporaneamente il luogo aperto a tutti i giovani dove si esplica nella carità il nostro ruolo di essere Chiesa oggi.

Cari amici, "multae sunt mansiones in Ecclesia Dei", molti sono i compiti nella Chiesa di Dio. C'è chi si ritira in un monastero a pregare, chi va a convertire gli africani, chi studia i papiri della Sacra Scrittura, chi amministra i sacramenti nelle parrocchie, chi insegna nelle scuole. Il nostro compito è custodire, testimoniare e sviluppare il Comune di Giovani, metodo così moderno di avviarsi ad essere Chiesa, da non essere ancora capito. Dobbiamo svolgere questo compito con fermezza, con tenacia e con serenità. Con fermezza. Non ci devono essere nè timori, nè carezze a farci desistere. Con tenacia. Il Comune dei giovani è troppo importante per l'educazione giovanile perchè il demonio non cerchi in tutte le maniere di distruggerlo: ora distraendoci con i mirtilli e con le fragole della nostra concupiscenza, ora cercando di dividerci nel nostro orgoglio, ora cercando di schiacciarci dall'esterno. Noi dobbiamo resistere, giorno dopo giorno, anno dopo anno. Il tempo è riservato a Dio. Con serenità. Il Comune dei Giovani non è nostro. È di Dio. Non dimentichiamo mai ciò, di fronte alle persone che ci ostacolano. Il nostro cuore deve essere sereno. E non c'è modo migliore di mantenerlo sereno che quello di pregare per le persone che ostacolano il Comune dei Giovani. Pregare perchè anch'esse siano serene, che Dio le renda felici, anche a nostro scapito, se ciò è necessario.

Non dico queste cose perchè sia necessario. Ho avuto da voi, in questi anni di difficoltà, tante e tante prove di fermezza, di tenacia, di serenità da garantire ogni bene per il futuro. La riflessione sulla paternità di Don Didimo mi ha portato al Comune dei Giovani. Era inevitabile. Ritorniamo a Don Didimo. L'indifferenza religiosa oggi nasce da varie cause. Una causa non secondaria è stata individuata nella mancata percezione da parte degli uomini dell'amore di Dio. "Amor ch'a nullo amato amar perdona". Quando gli uomini avvertono di essere amati, si lasciano amare ed amano e sono salvi. Ma Dio è uno strano giocatore: ama e si nasconde; crea e si nasconde nelle nebbie del caos primigenio; redime e si nasconde in un uomo di nome Gesù; è presente, ma è una "latens deitas". Ogni tanto manda qualche uomo per le strade del mondo, a testimoniare il suo amore. Noi, quest'uomo, lo abbiamo incontrato. Come tutti i segni di Dio, Gesù per primo, era un segno di contraddizione. Poteva essere accolto e poteva essere rifiutato. "A quanti però l'hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio." Se avevamo bisogno di un testimone dell'amore di Dio, Dio ce lo ha mandato. Ora Egli è vivo e presente, realmente, non in senso retorico. Perchè noi siamo riuniti nel nome di Gesù e con Gesù sono presenti tutte le anime sante che sono con Lui. Noi siamo qui con le nostre miserie e con le nostre meschinità, ma anche con la nostra buona volontà. È stato meraviglioso godere dell'amore di Dio, rivelatoci da Don Dìdimo, con la sua parola, con la sua amicizia. Siamo ancora disponibili ad accogliere per mezzo dell'intercessione di Don Didimo, l'amore di Dio. Il resto lo farà Lui, Dio.

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I frutti del carisma di don Didimo Mantiero

La Dieci

Il patriarca Abramo, conosciute le intenzioni di Dio di punire severamente le città corrotte di Sodoma e Gomorra, inizia una lunga trattativa di preghiera e di intercessione per scongiurare la minaccia. Alla fine Dio si convince e promette ad Abramo che avrebbe risparmiato Sodoma dal castigo se in essa vi avesse trovato almeno dieci giusti. L'episodio, narrato al capitolo 18 della Genesi, venne rivisitato da don Didimo Mantiero che, convinto della perenne validità di quel patto, fondò nel 1941 a Santorso (VI) l'associazione denominata "La Dieci". Scopo dell'associazione è di riunire un gruppo di persone (i dieci), preferibilmente di una unica parrocchia, che fanno proprio il "patto di Abramo" e si impegnano, soprattutto con la preghiera e il sacrificio, ad offrire a Dio un giorno particolare della settimana per ottenere la salvezza della propria città. Tutto si appoggia sulla fede nella promessa di Dio ovunque vi siano dieci giusti (giustificati) che offrono la propria vita e la propria preghiera in unione al sacrificio di Cristo, lì Dio assicura protezione e benedizione a tutta quanta la città, "per riguardo di quei dieci".

 

Il Comune dei Giovani

Un sindaco, un segretario, 15 ministri regolarmente eletti che compongono il Consiglio Direttivo, più di 100 iscritti tra i 15 e i 30 anni, una serie di attività che coinvolge più di 400 persone: ecco i "numeri" del Comune dei Giovani, un'originale realtà associativa giovanile. Nato nel 1962 dal carisma di don Didimo Mantiero, un sacerdote che riuscì ad intuire la forza dei giovani e la seppe mettere attivamente al servizio della Chiesa attraverso la formazione, la preghiera e la responsabilità (che sono ancora oggi i solidi pilastri dell'associazione), il Comune dei Giovani propone "l'incontro personale e comunitario, graduale e gioioso con Gesù Cristo" (art.1 dello Statuto), e fa del ragazzo il vero protagonista della sua educazione. Sono numerose le attività che l'associazione propone: da quelle sportive e ricreative, a quelle culturali, di preghiera e di formazione socio-politica, fino a quelle di gestione delle strutture: tutte diventano per i ragazzi occasione di formazione e di sviluppo di relazioni significative che aiutano a testimoniare Cristo nella comunità con il servizio agli altri e forniscono gli strumenti adeguati per una ricerca personale della Verità.

 

Impegno sociopolitico

Nel carisma di Don Didimo c'era anche la vocazione all'impegno politico-amministrativo. Il Comune dei Giovani, attraverso le elezioni annuali del Consiglio Direttivo e del Sindaco, ed attraverso la gestione in comune di numerose attività, con la ricerca delle risorse finanziarie e la valutazione delle priorità, permette, con gli anni, la selezione di una classe dirigente giovanile preparata, equilibrata, cristianamente motivata al servizio. In quarant'anni il Comune dei Giovani ha dato alla città di Bassano del Grappa due sindaci e decine di consiglieri e assessori comunali. E' l'opera più rischiosa a cui ci ha chiamato Don Didimo. In questi quarant'anni la grazia di Dio non ci ha mai abbandonato. Siamo rimasti fedeli. Per noi la politica è principalmente la concretezza di una testimonianza di verità nella nostra città. La politica è servizio. La politica è vocazione. La politica è unità. A questa linea, da quarant'anni, con la grazia di Dio, siamo rimasti fedeli.

 

La Scuola di Cultura Cattolica

La Scuola di Cultura Cattolica di Bassano del Grappa nacque nell'anno 1981, naturale estensione dell'associazione "Il Comune dei Giovani", da parte dei "cittadini" ormai divenuti adulti. Era un momento in cui le idee politiche di Gramsci erano divenute egemoni nella cultura italiana, al punto che anche alcune aree del mondo cattolico ne erano più o meno consapevolmente imbevute. Inoltre stava crescendo anche quella cultura che, dopo la caduta del comunismo, ne avrebbe preso il posto: il pensiero debole. Era necessaria un'opera di recupero della tradizione cattolica, non già per guardare nostalgicamente al passato, ma per realizzare quelle indicazioni del Concilio Vaticano II che il postconcilio aveva non di rado stravolto: "nova et vetera", un aggiornamento originale da parte di una cultura cattolica dotata di una sua identità, in dialogo con le altre culture senza concordismi, mimetismi e complessi di inferiorità. In ciò la Scuola di Cultura Cattolica di Bassano trae orientamento sicuro dal Magistero di Giovanni Paolo II e dai suoi imperativi: "fare della fede cultura" e "fede e ragione sono le due ali per la contemplazione della Verità".

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Educare alla liberta'

Appunti raccolti nei primi anni settanta, durante alcune lezioni di dottrina cristiana tenute da don Didimo Mantiero

E' stato autorevolmente detto che la Verità non è mai il prodotto della maggioranza dei pareri e neppure il prodotto di votazioni. Ciò che è vero, lo è di per se stesso, indipendentemente da ciò che ne possiamo pensare noi. Semmai la maggioranza delle opinioni può facilitare la scoperta della verità, mai a crearla. L'unanimità o la scelta fatta insieme hanno un valore di testimonianza alla verità, non di creazione. Abbiamo riportato questo concetto in apertura delle nostre considerazioni, perché ci sembra fondamentale per comprendere nel senso più vero il concetto della libertà. Non si insisterà mai abbastanza nell'affermare che il bene comune a cui aspira l'umanità di oggi dipende in primo luogo dall'orientamento alla verità e dal conseguente corretto uso della libertà. Ecco perché ci sembra di primaria importanza considerare la libertà come una conquista quotidiana e non solo come un comodo diritto acquisito. Forse proprio ai giovani, ai quali va la massima attenzione educativa, raramente si propone il giusto concetto di libertà, considerando quest'ultima come un bene che non abbisogna di spiegazioni,essendo di immediata percezione. Eppure la libertà rimane il fattore assolutamente decisivo nel fenomeno dell'educazione. E' infatti la propria libertà che l'educatore propone all'educando, cioè il proprio impegno con l'essere, perché libertà è impegno con l'essere, con la verità. In che cosa consiste dunque la libertà della persona umana?

 

Libero arbitrio

Il concetto di libertà, che è connaturale agli esseri intelligenti, si configura come una capacità e possibilità di scelta senza condizionamenti. Come capacità di scelta essa è riservata solo agli esseri intelligenti, per la necessità di giudizio che la libertà porta con sè. Come possibilità di scelta essa è senza limiti, nel senso che l'essere intelligente, tramite la volontà, può respingere tutti i condizionamenti possibili. L'assoluta libertà di scelta senza condizionamenti è però una libertà senta contenuti. Si può fare ciò che si vuole, in quanto esseri intelligenti dotati di volontà, ma non è la capacità di scelta in se stessa che fornisce la moralità degli atti umani, che determina cioè la bontà o la cattiveria delle azioni umane. Non è perché si ruba senza condizionamenti esterni e in assoluta libertà che il rubare diventa un bene. Come non è perché si sceglie senza condizionamenti di far esplodere una bomba atomica che essa diventa un bene. La libertà di scelta assoluta e senza condizionamenti è definita libero arbitrio ed è una facoltà che neppure Dio può limitare, se intende rispettare fino in fondo l'uomo e la sua natura. Prova ne è il peccato originale. Ma è sufficiente il libero arbitrio, questa assoluta libertà, per garantire la piena realizzazione dell'uomo e di una società ideale in cui l'uomo può vivere? In pratica si può accettare la libertà assoluta dell'individuo, in una società in cui ognuno dovrebbe rispettare i diritti dei suoi simili e il bene comune? Ci pare che la storia dica di no, visto che esistono regole di convivenza, leggi e ordinamenti che impongono di agire in determinati modi e reprimono certi abusi della libertà trasformatasi in licenza. A questi abusi si arriva evidentemente quando alla libertà non si danno contenuti validi.

 

Libertà

Il vero problema della libertà sta non tanto nella assoluta capacità di scelta lasciata al singolo, bensì nella capacità e possibilità di scelta "dei mezzi adatti a raggiungere il fine che è consono alla propria natura". Non si dirà mai, infatti, che un pesce, per sua natura destinato a vivere in acqua, realizzi se stesso e la sua libertà uscendo dal mare e pretendendo di vivere all'aria. Esso troverebbe immediatamente la sua morte. Come del resto non si dirà mai che l'uomo, condizionato a respirare a ritmi frequenti, realizzi pienamente la sua libertà uscendo dalla costrizione del respiro e decidendo di non respirare più. Troverebbe la sua morte. Ma ciò non vuol dire che non lo possa fare. Basta un colpo di pistola ad una tempia e un uomo vivente, ma obbligato a respirare, si trasformerebbe in un uomo morto, anche se apparentemente libero. La vera libertà consiste dunque nel dirigere il libero arbitrio in senso positivo, cioè nel dare contenuti morali di bene alla propria iniziale assoluta libertà di scelta. Vera libertà, quella che ogni uomo vuole realizzare, quella che gli stati dovrebbero garantire ai propri cittadini, consiste dunque nel fare il bene di se stessi. La libertà resta però sempre un mezzo - anche se il migliore - per raggiungere il fine, cioè l'appagamento delle aspirazioni della propria natura.

 

Bene

Ma quale è il bene dell'uomo singolo e della comunità in cui egli vive? Il bene innanzitutto è l'essere in quanto tale posto di fronte all'amore e al volere. Tutto ciò che esiste, quindi che è nell'essere, è oggetto di volere e di amore. Ma non tutto ciò che è, pur essendo oggetto di amore, è moralmente buono. Si danno infatti innumerevoli casi in cui si desidera il male, ma sotto l'aspetto di bene, pensando cioè che esso sia bene. Infatti in ogni specie di errore e di peccato vi è un certo bene che noi cerchiamo. In defìnitiva, ogni cosa esistente è buona in sè stessa, come parte dell'essere, ma non ogni cosa è moralmente buona. Un delitto congegnato con splendida intelligenza ed eseguito con eccezionale abilità è un buon crimine, non è però una buona azione. Non sono i beni esteriori, i beni corporali e neppure i beni intellettuali a fare un buon uomo, bensì il suo agire. E si avrà agire buono o agire cattivo a seconda che l'uomo usi della propria libertà per realizzare veramente il proprio essere. E quando si realizza l'essere umano? Quando esso raggiunge il massimo possibile di felicità in rapporto alle sue potenziali capacità, usufruendo dei suoi fondamentali diritti. Al di là delle varie concezioni che si possono avere dell'uomo, materialistiche o personali, il comune pensare attribuisce all'essere umano beni che sono inerenti al corpo e allo spirito, in pratica a ciò che va sotto il nome di "persona umana". Esistono dunque dei beni che riguardano il corpo e dei beni che riguardano lo spirito. Tali beni, che sono garantiti da altrettanti diritti, sono riconosciuti, magari sulla carta, da tutte le convenzioni internazionali. Sono beni attinenti al corpo la liberazione dal flagello della fame, delle malattie, della guerra, dello sfruttamento. Sono beni per l'uomo avere un lavoro, una casa, una famiglia. Avere la garanzia che vi siano ospedali funzionanti, scuole efficienti, servizi in ordine. Sono altresì beni attinenti al "corpo dell'uomo" poter esprimere la vita di relazione con gli altri in maniera normale, senza costrizioni esterne, quali potrebbero essere le dittature, i soprusi, le violenze, il terrorismo. Sono invece beni attinenti allo spirito poter esprimere liberamente il proprio pensiero, le proprie opinioni critiche, nonchè le proprie convinzioni religiose. Agire liberamente significa quindi adoperarsi per sconfiggere la fame e la paura e poter esprimere il proprio pensiero e la propria religione. Ma agire liberamente significa anche adoperarsi affinchè la vita comunitaria si svolga nella pace e nell'ordine. Adoperarsi per il bene comune, sacrificando se occorre anche il bene individuale. Non per nulla la resistenza, di cui tutti andiamo fieri, costituisce un grandioso esempio di sacrifico personale in favore della libertà e del bene delle generazioni successive. Contribuire alla costruzione del bene comune, secondo le proprie possibilità, è e resta un grave dovere legato alla libertà dei singoli e che ne valorizza i contenuti. In altre parole il bene dell'uomo e della comunità è sintetizzato dalla legge naturale scritta nel cuore degli uomini e che va sotto il nome dei Dieci Comandamenti. E' una legge, che sotto diverse formulazioni, è sempre stata accettata da tutti e in ogni tempo. Accettata naturalmente dagli uomini che perseguono il bene e che indirizzano la propria libertà verso tale traguardo. Esistono infatti uomini che perseguono obiettivi diversi dal bene e la storia è piena di eloquenti esempi. Le conseguenze di sangue e di morte sono sotto gli occhi di tutti. Fare il bene individuale e sociale ed impedire la divulgazione del male è e resta obiettivo primario della libertà dei singoli e dei popoli.

 

Libertà e Grazia

Ma tale libertà di orientarsi per il bene sarebbe incompleta se tralasciassimo di parlare del contenuto più alto della libertà: della libertà intesa come "liberazione", liberazione dall'errore e dal male. La liberazione dall'errore sì realizza solo tramite la Verità (...la verità vi renderà liberi... cfr. S. Paolo), mentre la liberazione della volontà si realizza tramite il Bene. Verità e Bene riposano solo in Dio. La vera libertà trova quindi la sua pienezza nella Grazia, nell'accettazione della vita divina in noi, che costituisce il grande dono e mistero della Redenzione. La vera libertà confluisce in ultima analisi nella divinizzazione dell'uomo, sempre che quest'ultimo ne sia disponibile. "Quando un uomo, scrive S. Tommaso, arriva all'età della ragione, la prima cosa che deve fare il suo pensiero, è di decidere di se stesso. E se egli si indirizza al suo vero fine, egli viene liberato dal peccato originale mediante la grazia santificante che egli riceve in quel momento". Fatti questi accenni alla problematica della libertà, ci si può addentrare nel problema dell'educazione.

 

Educazione e cultura

Il processo educativo è un rischio perché gioca tutto sulla libertà di chi educa e sulla libertà di chi viene educato. E'un gioco in cui non si può barare. Non può barare chi educa, perché altrimenti chi deve essere educato non risponde; e non può barare chi deve essere educato, perché se non si impegna nella verifica, nella considerazione seria di ciò che gli viene proposto, la posizione che assumerà, se sarà positiva, sarà conformista, non sarà mai una convinzione; se invece sarà negativa, sarà sleale, sleale per tutta la vita.

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